giovedì 10 marzo 2011

OU ES TU?

Misi un po' di cose in tasca per non superare il peso consentito dalla compagnia aerea. La caffettiera, il phon da viaggio che di lì a poco mi avrebbe comunque abbandonato per il voltaggio sbagliato o più semplicemente perché trabiccoli da sette euro hanno vita breve.

Avevamo pianto molto mentre ci tenevamo le mani, come se lo sapessimo che quello sarebbe stato il nostro addio più ben riuscito. Gli altri sono stati soltanto vigliacche pantomime.

Il sole quasi primaverile illuminava i pochi metri di percorso tracciato che avevo di fronte e lo rendeva quasi un'allegra gita fuori porta.

Mentre attendevo che comparisse la mia valigia sul nastro trasportatore mangiavo lenta, un boccone alla volta, il panino con la cioccolata che quella mattina mi aveva lasciato mio fratello. Ne aveva davvero poca. Ancora adesso non so se vederci un reale e disinteressato slancio di generosità. L'aeroporto Charles de Gaulle sembrava un aeroporto secondario, vuoto, spoglio. Ogni tanto mi guardavo intorno nel tentativo di riconoscere quella ragazza inglese che avevo contattato dall'Italia nel tentativo di affittare una stanza. Se pagavo in anticipo sarebbe venuta a prendermi all'aeroporto, mi aveva detto, come aveva fatto tante altre volte con altri suoi ospiti. Le avevo risposto che prima di mandare denaro in giro per il mondo avrei preferito vedere la casa. Ancora una volta persi l'occasione di vedere il mio nome storpiato su un foglio di carta davanti la porta degli arrivi. La ragazza inglese non ci sarebbe stata, finse una breve trasferta fuori Parigi con il ragazzo. Il giorno successivo sparì del tutto e con lei anche il suo appartamento troppo irish per essere il 7 di Rue Champollion. E per non puzzare di fregatura.

Mezzora dopo essere atterrata mi ero sentita terribilmente sola almeno una ventina di volte, si era strisciato irreparabilmente il mac preso un mese prima e avevo già controllato quanto poteva venirmi a costare un volo di ritorno.

Avevo un solo numero, trascritto per sicurezza sull'agenda, di un ragazzo originario della mia città che non conoscevo, ma che sapevo vivesse da qualche anno a Parigi. Lo chiamai e mi disse dove ci saremmo visti. Non c'era imbarazzo, sembrava tutto normale anche se non lo era affatto.

Saliti a fatica gli scalini del métro, vidi per la prima volta la città. Dalle pozzanghere e da qualche ombrello sembrava avesse piovuto un po' ma era già uscito il sole. In attesa di riconoscere qualcuno che non conoscevo, mi guardai intorno. Le piastrelle bianche e strette delle stazioni del métro. Per le strade, i cestini verdi che non sono inchiodati a niente, sono soltanto un sacchetto, ma rimangono dove sono, perché nessuno si prende la briga di distruggerli. I rivoli di acqua ai bordi delle strade. Le sedie di metallo smaltato dei giardini che qualcuno sposta ma che nessuno porta a casa. Le code ordinate davanti le panetterie alle sei di sera e i cesti di mughetti degli ambulanti. Volevo tutto questo. Ero nel giusto.

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